16 Aprile, 2013.
Articolo
Gian Carlo Delgado Ramos è stato intervistato per noi da Francesco G. Leone.
In questa sede vogliamo parlare con Lei del cambiamento climatico, un argomento molto sentito non solo dal mondo accademico, ma anche dell’opinione pubblica mondiale. Quali conseguenze sociali potrebbe arrecare se non si adottano misure concrete per ridurre le emissioni di gas ad effetto serra?
Il cambiamento climatico è frutto della concentrazione di gas ad effetto serra che alla fine del 2010 è aumentato del 39% rispetto alle epoche preindustriali. Il gas di maggiore concentrazione e permanenza è il diossido di carbonio (C02) con una vita media che oscilla fra i quarantacinque e i duecento anni. Anche il metano merita la nostra attenzione, anche se la sua persistenza è minore rispetto al CO2, con una vita media di dodici anni dovuta principalmente alle quantità emesse ma anche alla sua peculiare capacità di assorbimento delle radiazioni infrarosse. La capacità di riscaldamento globale del metano è stimata fra le venticinque e le trentatré volte in più rispetto al CO2 e questo significa, secondo un rapido calcolo aritmetico, che per ogni tonnellata di metano emessa dobbiamo considerare un equivalente di CO2 pari a trentatré tonnellate.
La causa principale dell’aumento delle emissioni di gas ad effetto serra è l’utilizzo indiscriminato dei combustibili fossili; tuttavia non possiamo non tener conto di altri fattori, come ad esempio del carburante bruciato dal settore dei trasporti, che rappresenta il 19% dell’energia totale usata a livello mondiale secondo i dati risalenti al 2005 e che contribuiscono al 23% del totale dell’emissioni antropogeniche di CO2. Si devono considerare anche le emissioni attribuite al settore edilizio (33%) ed al settore industriale (36%).I dati indicano che il metabolismo sociale, ovvero l’utilizzo di materiali ed energia da parte dell’umanità, è divenuto, col passar del tempo, sempre più complesso. Vi è, infatti, una correlazione fra l’aumento del metabolismo sociale e l’incremento dell’accumulazione del capitale. E mentre l’economia mondiale ha registrato una crescita di ben venti volte durante il XX secolo, le stime indicano che nello stesso periodo la popolazione mondiale si è quadruplicata, il consumo di materiali ed energia è aumentato di dieci volte, il consumo di biomassa si è incrementato di ben 3,5 volte, la demanda di metalli si è espansa di circa 19 volte e la domanda di materiali edili, soprattutto di cemento, è cresciuta di ben 34 volte.
A questo fenomeno si addebitano una serie di ripercussioni ecologiche che ci inducono a parlare non tanto di cambiamento climatico quanto piuttosto di un vero e proprio cambiamento globale. Le stime indicano che dal lontano anno 1751 sono state emesse 337 miliardi di tonnellate di CO2 come conseguenza della combustione di combustibili fossili. La concentrazione di questo gas ha registrato i suoi maggiori aumenti negli ultimi decenni: da un valore costante registrato negli ultimi diecimila anni pari a 280 parti per milione (PPM) passò a 320 PPM nel 1960, 330 PPM nel 1973, 350 PPM nel 1987, 360 PPM nel 1998, 383 PPM nel 2006 e finalmente a 394 PPM agli inizi del 2012 (Fonte: co2now.org).
Gli effetti del riscaldamento del pianeta, ci rammenta l’Intergovernmental Panel on Climate Change, possono riguardare l’incremento del numero ed intensità dei fenomeni climatici (ad esempio tempeste, cicloni, alluvioni, siccità, eccetera), lo spostamento ed alterazione delle riserve di acqua dolce, la diffusione delle malattie infettive, la perdita di biodiversità marina e terrestre, lo scioglimento dei poli, l’aumento del livello del mare e degli oceani, l’alterazione delle correnti marine (fredde e calde) tanto per evidenziare alcune nefaste conseguenze. La situazione nella quale ci ritroviamo oggi è il risultato di una disuguale contribuzione storica nelle emissioni di CO2 dato che il 20% della popolazione mondiale (la più ricca) ha generato il 90% delle stesse. Tutt’oggi i paesi dell’OSCE consumano il 43,8% dell’energia mondiale prodotta mentre le restanti regioni del globo, come ad esempio l’America Latina, si accontentano di un 5,2%, l’Asia (eccettuando la Cina) dell’11,6% e l’Africa di un 5,7% (Fonte: Agenzia Internazionale dell’Energia, 20101). Si tenga presente che la popolazione dei paesi dell’OSCE è di circa 950 milioni di abitanti, mentre le restanti regioni (senza includere la Cina) ne contano quasi 4,2 miliardi. Queste disparità sono note alla comunità internazionale e se si modificano i dati escludendo il Messico ed il Cile dalla lista dell’OSCE, integrandoli invece nella regione dell’America Latina, otteniamo come risultato una differenza di consumo energetico pro capite di 1 a 10.
Quanto sopra necessita di urgenti misure che tengano conto altresì delle nozioni di genere onde ridurre la vulnerabilità sociale provocata dal cambio climatico.
La causa principale dell’aumento delle emissioni di gas ad effetto serra è l’utilizzo indiscriminato dei combustibili fossili; tuttavia non possiamo non tener conto di altri fattori, come ad esempio del carburante bruciato dal settore dei trasporti, che rappresenta il 19% dell’energia totale usata a livello mondiale secondo i dati risalenti al 2005 e che contribuiscono al 23% del totale dell’emissioni antropogeniche di CO2. Si devono considerare anche le emissioni attribuite al settore edilizio (33%) ed al settore industriale (36%).I dati indicano che il metabolismo sociale, ovvero l’utilizzo di materiali ed energia da parte dell’umanità, è divenuto, col passar del tempo, sempre più complesso. Vi è, infatti, una correlazione fra l’aumento del metabolismo sociale e l’incremento dell’accumulazione del capitale. E mentre l’economia mondiale ha registrato una crescita di ben venti volte durante il XX secolo, le stime indicano che nello stesso periodo la popolazione mondiale si è quadruplicata, il consumo di materiali ed energia è aumentato di dieci volte, il consumo di biomassa si è incrementato di ben 3,5 volte, la demanda di metalli si è espansa di circa 19 volte e la domanda di materiali edili, soprattutto di cemento, è cresciuta di ben 34 volte.
A questo fenomeno si addebitano una serie di ripercussioni ecologiche che ci inducono a parlare non tanto di cambiamento climatico quanto piuttosto di un vero e proprio cambiamento globale. Le stime indicano che dal lontano anno 1751 sono state emesse 337 miliardi di tonnellate di CO2 come conseguenza della combustione di combustibili fossili. La concentrazione di questo gas ha registrato i suoi maggiori aumenti negli ultimi decenni: da un valore costante registrato negli ultimi diecimila anni pari a 280 parti per milione (PPM) passò a 320 PPM nel 1960, 330 PPM nel 1973, 350 PPM nel 1987, 360 PPM nel 1998, 383 PPM nel 2006 e finalmente a 394 PPM agli inizi del 2012 (Fonte: co2now.org).
Gli effetti del riscaldamento del pianeta, ci rammenta l’Intergovernmental Panel on Climate Change, possono riguardare l’incremento del numero ed intensità dei fenomeni climatici (ad esempio tempeste, cicloni, alluvioni, siccità, eccetera), lo spostamento ed alterazione delle riserve di acqua dolce, la diffusione delle malattie infettive, la perdita di biodiversità marina e terrestre, lo scioglimento dei poli, l’aumento del livello del mare e degli oceani, l’alterazione delle correnti marine (fredde e calde) tanto per evidenziare alcune nefaste conseguenze. La situazione nella quale ci ritroviamo oggi è il risultato di una disuguale contribuzione storica nelle emissioni di CO2 dato che il 20% della popolazione mondiale (la più ricca) ha generato il 90% delle stesse. Tutt’oggi i paesi dell’OSCE consumano il 43,8% dell’energia mondiale prodotta mentre le restanti regioni del globo, come ad esempio l’America Latina, si accontentano di un 5,2%, l’Asia (eccettuando la Cina) dell’11,6% e l’Africa di un 5,7% (Fonte: Agenzia Internazionale dell’Energia, 20101). Si tenga presente che la popolazione dei paesi dell’OSCE è di circa 950 milioni di abitanti, mentre le restanti regioni (senza includere la Cina) ne contano quasi 4,2 miliardi. Queste disparità sono note alla comunità internazionale e se si modificano i dati escludendo il Messico ed il Cile dalla lista dell’OSCE, integrandoli invece nella regione dell’America Latina, otteniamo come risultato una differenza di consumo energetico pro capite di 1 a 10.
Quanto sopra necessita di urgenti misure che tengano conto altresì delle nozioni di genere onde ridurre la vulnerabilità sociale provocata dal cambio climatico.
Se continua l’eccessivo riscaldamento globale e l’inerzia dei governi nel non prendere misure urgenti, che nuovi scenari geopolitici si potrebbero prospettare verso l’anno 2025?
Sembrerebbe ovvio pensare che, davanti ad un incremento ed intensificazione del metabolismo sociale, aumentino anche i conflitti per le risorse strategiche, soprattutto quelle chiave per lo sviluppo, di facile accesso e perciò economiche (riserve convenzionali). I conflitti si profilano in tutte le dimensioni spaziali e temporali, fra molteplici attori con variegate quote di potere. I conflitti possono presentarsi anche sotto forma di:
- dispute locali originate dal degrado della risorsa o dai disastri naturali;
- dispute per l’accesso, utilizzo e conseguente sfruttamento delle risorse a seguito di fenomeni migratori e/o mutamenti di territorio;
- processi di accumulazione per spoglio, includendo i processi di spoglio che si propongono di conservare la risorsa, i meccanismi di mercato, ad esempio tramite la privatizzazione formale, de facto, o alienazione della risorsa in favore di capitali stranieri;
- conflitti fra territori od unità politiche definite all’interno di una paese (Stato centrale contro le provincie, i comuni contro i cittadini, eccetera).
Se si conferma l’impennata dei consumi e del massiccio accumulo di capitale, si avverte un futuro socio-ambientale inquietante dato che le proiezioni del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) suggeriscono un aumento dell’estrazione delle risorse naturali, soprattutto di energia e minerali, che potrebbe triplicare i suoi valori verso la fine del 2050. Se lo scenario futuro si dovesse presentare, come dire, “moderato”, l’aumento sarebbe di circa il 40%. Al contrario, se si dovessero mantenere i parametri di consumo raggiunti nell’anno 2000, lo scenario sarebbe davvero raccapricciante.
Perciò cominciare a prevedere modalità di risparmio energetico e la necessità di moderare il consumo di materiali ci indurrà a riconsiderare nuovi parametri di efficienza ed a modificare radicalmente le nostre abitudini. Ciò richiederebbe, fra le altre cose, rivedere anche i modelli di consumi endosomatico (di cibo e di acqua) ed esosomatico (consumo di energia e di materiali) imperanti nelle nostre società. I dati sui consumi energetici endosomatici, utilizzando come parametro di riferimento una dieta leggermente superiore alla media contemporanea, si attestano attorno ai 10-14 megajoule al giorno (circa 2400–3500 calorie giornaliere) con una correlazione di consumo esosomatico che oscilli fra 50-1 e 75-1 per le potenze industriali o paesi con maggiore spreco energetico.
La domanda di risorse che non si arresta, ma che purtroppo aumenta, prospetterà scenari legati alla geopolitizzazione delle risorse naturali, vale a dire all’implementazione di meccanismi per garantire il controllo delle risorse o, detto in altro modo, per assicurare il libero flusso delle risorse naturali verso il mercato internazionale e, così facendo, verso le mani dei possibili acquirenti (cioè, di coloro che diedero impulso a tali meccanismi). Stiamo parlando di misure reattive e chiaramente delineate sulla falsariga degli interessi di classe che l’uno o l’altro Stato nazione persegue. L’estrattivismo, tradizionalmente legato a passivi ambientali e climatici importanti, si verificherà probabilmente sulla base di ciò che Harvey qualifica come “accumulo per spossessamento”, in definitiva, come uno spoglio legale o illegale dei beni comuni a buona parte della popolazione (incluso ai popoli interi) con conseguente spoglio graduale a detrimento delle generazioni future.
La resistenza sociale sarà fondamentale se si vorrà contrastare questo rincrescioso fenomeno.
Il Sudamerica è cambiato in questi ultimi vent’anni. Una regione che, durante gli anni ’90, sottomessa, abbracciava i principi del Consenso di Washington ma che oggi si presenta davanti la comunità internazionale come una potenza regionale sovrana capace di guidare il subcontinente verso le nuove sfide del futuro. Quali conseguenze hanno portato le privatizzazioni ed i programmi di sviluppo della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale nelle politiche pubbliche dei paesi della regione, soprattutto nei settori strategici quali ad esempio le risorse naturali e la protezione dell’ambiente?
Dobbiamo precisare che le istituzioni finanziarie internazionali, come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale, ma anche quelle di carattere regionale come la Banca Interamaericana dello Sviluppo, sono istituzioni di potere che rappresentano gli interessi dei propri contributori. Gli Stati Uniti, ad esempio, detengono un potere di voto capace di bloccare iniziative indesiderate. In più, queste istituzioni, non dimentichiamolo, sono nate mentre si consolidava l’egemonia statunitense. La loro istituzione rispondeva ad una logica ben calibrata: dare sbocco alla produzione nordamericana poiché l’apparato industriale nazionale non fu distrutto dalla seconda guerra mondiale, ma al contrario ne fu stimolato e potenziato permettendo così di consolidare il suo comparto civile-militare.
Lo scopo principale dei progetti promossi delle istituzioni finanziarie internazionali fu quello di contenere la tendenza decrescente dei margini di profitto attraverso l’apertura di nuovi flussi commerciali, soprattutto di beni e capitali, che dai contributori si spostarono liberamente verso i paesi debitori, vale a dire verso i paesi dell’America Latina. La dipendenza tecnologica latinoamericana, soprattutto di macchinari ed impianti elettronici, è indicativo di un altro fenomeno che si cela dietro l’attuale divisione internazionale del lavoro: la regione consegna le sue risorse naturali e riceve in cambio capitali provenienti dagli Stati Uniti e l’Europa.
Sappiamo tutti che le risorse dell’America Latina sono essenziali nonché strategiche per l’economia emisferica e mondiale. Tanto è vero che una buona parte dei progetti promossi dalla Banca Mondiale e dalla Banca Interamericana per lo Sviluppo si concentrarono proprio sullo sfruttamento delle risorse naturali dando impulso a massicci investimenti nell’industria estrattiva e costruendo l’infrastruttura necessaria. Alla fine vengono scambiate per beni di capitali all’interno delle logiche del commercio sociologicamente disuguale: si scambiano risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili a buon mercato e con passivi ambientali ad elevato impatto sociale, in cambio di prodotti industriali di rapida lavorazione, molto costosi, ma che sono frutto della trasformazione dei primi. Così, mentre le esportazioni delle risorse naturali dell’America Latina sono sempre più convenienti, tanto sub-continentalmente quanto economicamente (infatti dal 1876 vi è una storica tendenza del prezzo delle materie prime a ribasso2), le esportazioni delle potenze industriali, contenenti valore aggiunto, sono vendute ad un prezzo sempre maggiore. In questo modo, gli Stati Uniti e l’Europa assicurano il flusso delle loro esportazioni di prodotti informatici ed elettronici (per le telecomunicazioni e la lavorazione dei semiconduttori), macchinari per trasporto (motori, prodotti metalmeccanici, aeronautici, medicali, macchinari diversi), prodotti chimici (farmaceutici, medicine, plastica) ed armamento.
Il carattere essenzialmente estrattivista dell’economia latinoamericana, con pochi o nulli concatenamenti produttivi endogeni, colloca la regione nella periferia del sistema economico mondiale. In quanto tale, si può dire che si trova legata, in grado maggiore o minore, a seconda dei casi, agli interessi e flussi di capitali provenienti dalle potenze industriali.
Ruy Mauro Marini (1973) avvertiva, ormai alcuni decenni or sono, circa i rischi provocati dalla dipendenza strutturale dell’America Latina come conseguenza del suo inserimento all’interno di questa peculiare divisione del lavoro, cioè, una sorta di capitalismo sui generis di stampo latinoamericano. La dipendenza, per Marini, si può sintetizzare come una
Lo scopo principale dei progetti promossi delle istituzioni finanziarie internazionali fu quello di contenere la tendenza decrescente dei margini di profitto attraverso l’apertura di nuovi flussi commerciali, soprattutto di beni e capitali, che dai contributori si spostarono liberamente verso i paesi debitori, vale a dire verso i paesi dell’America Latina. La dipendenza tecnologica latinoamericana, soprattutto di macchinari ed impianti elettronici, è indicativo di un altro fenomeno che si cela dietro l’attuale divisione internazionale del lavoro: la regione consegna le sue risorse naturali e riceve in cambio capitali provenienti dagli Stati Uniti e l’Europa.
Sappiamo tutti che le risorse dell’America Latina sono essenziali nonché strategiche per l’economia emisferica e mondiale. Tanto è vero che una buona parte dei progetti promossi dalla Banca Mondiale e dalla Banca Interamericana per lo Sviluppo si concentrarono proprio sullo sfruttamento delle risorse naturali dando impulso a massicci investimenti nell’industria estrattiva e costruendo l’infrastruttura necessaria. Alla fine vengono scambiate per beni di capitali all’interno delle logiche del commercio sociologicamente disuguale: si scambiano risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili a buon mercato e con passivi ambientali ad elevato impatto sociale, in cambio di prodotti industriali di rapida lavorazione, molto costosi, ma che sono frutto della trasformazione dei primi. Così, mentre le esportazioni delle risorse naturali dell’America Latina sono sempre più convenienti, tanto sub-continentalmente quanto economicamente (infatti dal 1876 vi è una storica tendenza del prezzo delle materie prime a ribasso2), le esportazioni delle potenze industriali, contenenti valore aggiunto, sono vendute ad un prezzo sempre maggiore. In questo modo, gli Stati Uniti e l’Europa assicurano il flusso delle loro esportazioni di prodotti informatici ed elettronici (per le telecomunicazioni e la lavorazione dei semiconduttori), macchinari per trasporto (motori, prodotti metalmeccanici, aeronautici, medicali, macchinari diversi), prodotti chimici (farmaceutici, medicine, plastica) ed armamento.
Il carattere essenzialmente estrattivista dell’economia latinoamericana, con pochi o nulli concatenamenti produttivi endogeni, colloca la regione nella periferia del sistema economico mondiale. In quanto tale, si può dire che si trova legata, in grado maggiore o minore, a seconda dei casi, agli interessi e flussi di capitali provenienti dalle potenze industriali.
Ruy Mauro Marini (1973) avvertiva, ormai alcuni decenni or sono, circa i rischi provocati dalla dipendenza strutturale dell’America Latina come conseguenza del suo inserimento all’interno di questa peculiare divisione del lavoro, cioè, una sorta di capitalismo sui generis di stampo latinoamericano. La dipendenza, per Marini, si può sintetizzare come una
Riassumendo questo concetto, possiamo dire che l’incidenza delle istituzioni finanziarie internazionali nel promuovere politiche o schemi economico-produttivi favorevoli agli investimenti esteri diretti si è concentrata soprattutto nell’industria estrattiva ed il volume degli investimenti di capitale si è notevolmente incrementato da quando sono state implementate in America Latina politiche neoliberiste con la complicità dei governanti di turno. Questo ha provocato la cosiddetta “polarizzazione della ricchezza”. In Brasile, ad esempio, il 10% più abbiente trattiene il 50,6% della ricchezza prodotta rispetto allo 0,8% trattenuto dal 10% più povero. In Messico, il 10% più abbiente trattiene il 42,2% della ricchezza, rispetto all’1,3% detenuto dal 10% più povero. In Argentina, il 41,7% delle ricchezza è nelle mani del 10% più abbiente mentre l’1,1% delle entrate del paese si dividono fra il 10% più povero.
Infine, è importante sottolineare che nel caso dei governi progressisti, come Bolivia o Venezuela, osserviamo che il distacco nei confronti delle istituzioni finanziarie era ed è un requisito fondamentale per sviluppare progetti nazionali alternativi a quelli che abbiamo poc’anzi analizzato.
Infine, è importante sottolineare che nel caso dei governi progressisti, come Bolivia o Venezuela, osserviamo che il distacco nei confronti delle istituzioni finanziarie era ed è un requisito fondamentale per sviluppare progetti nazionali alternativi a quelli che abbiamo poc’anzi analizzato.
Come possiamo interpretare questa rinnovata volontà delle nazioni che compongono l’UNASUR di concordare una agenda comune rispettosa, non solo dei diritti umani, ma anche dell’ambiente?
Il controllo del commercio estero da parte dei paesi industrializzati, l’imposizione delle politiche neoliberiste, la promozione degli investimenti esteri e gli schemi della proprietà intellettuale ad hoc insieme al monopolio crescente dei mezzi di trasporto sono tutte, in combinazione con altre dinamiche, questioni che hanno ostacolato l’implementazione di altre forme di sviluppo in America Latina.
In tal senso, il mercato comune latinoamericano è, per gli Stati Uniti, accettabile nella misura in cui non comprometta le riserve strategiche del subcontinente oppure la sua quota di mercato per i suoi manufatti. Al contrario, il mercato comune latinoamericano dovrebbe essere inteso come luogo di interscambio che sia “strumento” e non già “fine” che si prefigge di garantire alla regione una certa autonomia sulla base dello scambio fra pari, compensatorio e complementare che aiuti, inoltre, all’industrializzazione, e perciò a ridurre le contraddizioni esistenti fra i diversi paesi che lo compongono e le popolazioni che lì vi abitano.
La memoria storica è, dunque, necessaria per calibrare con maggiore finezza l’ampiezza e complessità della sfida. Il “nuovo” soggetto sociale latinoamericano, sempre più cosciente delle sue problematiche interne e della sua realtà, vuole delegittimare l’attuale sistema di produzione ed i paradigmi che impone, non solo promovendo la decolonizzazione bensì denunciando la sempre più acuta crisi della civiltà verso la quale ci stiamo dirigendo. Il mercato comune, in un simile contesto, potrebbe essere uno strumento per ostacolare oppure per stimolare l’integrazione latinoamericana, dipendendo dal tipo di “mercato” che si vuole implementare. Vero è che i problemi associati alla costruzione di alternative valide al capitalismo depredatorio del XIX secolo non risiedono nella sfera dello scambio, bensì nelle strutture socio-economiche della regione. In relazione a ciò, rileva il fatto che le economie latinoamericane si complementano in modo superficiale dato che sono tutte essenzialmente estrattive e tutte richiedono, a loro volta, l’importazione di macchinari e di praticamente gli stessi prodotti industriali dall’estero.
Pertanto, la adozione di schemi alternativi che permettano l’industrializzazione endogena nel lungo periodo, fortemente vincolati al soddisfacimento dei bisogni sociali nazionali e regionali, alla pari delle politiche che proteggano le nascenti industrie, specialmente quelle operanti nei mercati interni, nazionali e regionali, si potrebbero convertire in questioni di grande trascendenza per qualsiasi seria intenzione di integrazione alternativa.
Invero, le iniziative d’integrazione regionale come l’Alianza Bolivariana para América Latina y el Caribe(ALBA) hanno portato paesi come Venezuela, Ecuador e Bolivia a situazioni difficili, non solo per quanto riguarda l’integrazione in se stessa, bensì per ciò che comporta la proiezione del proprio progetto nazionale di fronte agli impulsi subordinanti del capitale che vede in pericolo i suoi interessi e predominio nella regione. La minaccia maggiore è il Venezuela data la sua valenza strategica sostenuta da milioni di barili di petrolio. Un Venezuela che, oltretutto, non si contiene all’interno delle sue frontiere, ma che promuove regionalismi e pretende di non essere soggiogata dagli Stati Uniti d’America attraverso progetti di unità che, nonostante tutto e le ovvie critiche costruttive che merita, non possono essere inquadrati come destrutturanti dell’imperialismo economico, né tantomeno degli apparati ideologico-culturali imperanti in America Latina. Mi riferisco specialmente all’ALBA ma anche ad alcuni progetti di origine boliviana (PCT) così come le diverse iniziative puntuali che hanno portato alla creazione, ad esempio, della Banca del Sud, il trattato energetico dell’ALBA o la creazione della rete televisiva del sud (TELESUR).
L’ALBA-PCT ha un aspetto importante e di grande valore dato che il commercio e gli investimenti non si collocano come fini a se stanti, bensì come strumenti che consentono lo sviluppo dei popoli che si propongono di conservare le proprie identità culturali. L’opposto rispetto ai principi fondamentali degli accordi multilaterali promossi dagli Stati Uniti d’America.
Il Brasile, in questo panorama, gioca un ruolo fondamentale ma la sua presa di posizione vuole una integrazione sotto la sua egida, infatti dall’UNASUR trapela questo tratto sub-imperialista delle sue politiche nei confronti della regione. Sebbene l’UNASUR sia un passo importante per la riformulazione di alternative comuni, queste devono applicarsi con cautela, riconoscendo che i diversi interessi che ivi si coniugano non necessariamente legittimano, con le azioni dei diversi Stati membri, una agenda genuinamente comune per tutte le parti e che neanche si possa consolidare, nella pratica, l’armonia socio ambientale.
Nonostante tutto, sono stati compiuti passi in avanti nei diversi campi. Nello specifico, costruendo un contrappeso alle altre entità come l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) e che, nei fatti, ha rappresentato gli interessi statunitensi e dei suoi “soci” e non quelli della popolazione regionale nel suo complesso.
In tal senso, il mercato comune latinoamericano è, per gli Stati Uniti, accettabile nella misura in cui non comprometta le riserve strategiche del subcontinente oppure la sua quota di mercato per i suoi manufatti. Al contrario, il mercato comune latinoamericano dovrebbe essere inteso come luogo di interscambio che sia “strumento” e non già “fine” che si prefigge di garantire alla regione una certa autonomia sulla base dello scambio fra pari, compensatorio e complementare che aiuti, inoltre, all’industrializzazione, e perciò a ridurre le contraddizioni esistenti fra i diversi paesi che lo compongono e le popolazioni che lì vi abitano.
La memoria storica è, dunque, necessaria per calibrare con maggiore finezza l’ampiezza e complessità della sfida. Il “nuovo” soggetto sociale latinoamericano, sempre più cosciente delle sue problematiche interne e della sua realtà, vuole delegittimare l’attuale sistema di produzione ed i paradigmi che impone, non solo promovendo la decolonizzazione bensì denunciando la sempre più acuta crisi della civiltà verso la quale ci stiamo dirigendo. Il mercato comune, in un simile contesto, potrebbe essere uno strumento per ostacolare oppure per stimolare l’integrazione latinoamericana, dipendendo dal tipo di “mercato” che si vuole implementare. Vero è che i problemi associati alla costruzione di alternative valide al capitalismo depredatorio del XIX secolo non risiedono nella sfera dello scambio, bensì nelle strutture socio-economiche della regione. In relazione a ciò, rileva il fatto che le economie latinoamericane si complementano in modo superficiale dato che sono tutte essenzialmente estrattive e tutte richiedono, a loro volta, l’importazione di macchinari e di praticamente gli stessi prodotti industriali dall’estero.
Pertanto, la adozione di schemi alternativi che permettano l’industrializzazione endogena nel lungo periodo, fortemente vincolati al soddisfacimento dei bisogni sociali nazionali e regionali, alla pari delle politiche che proteggano le nascenti industrie, specialmente quelle operanti nei mercati interni, nazionali e regionali, si potrebbero convertire in questioni di grande trascendenza per qualsiasi seria intenzione di integrazione alternativa.
Invero, le iniziative d’integrazione regionale come l’Alianza Bolivariana para América Latina y el Caribe(ALBA) hanno portato paesi come Venezuela, Ecuador e Bolivia a situazioni difficili, non solo per quanto riguarda l’integrazione in se stessa, bensì per ciò che comporta la proiezione del proprio progetto nazionale di fronte agli impulsi subordinanti del capitale che vede in pericolo i suoi interessi e predominio nella regione. La minaccia maggiore è il Venezuela data la sua valenza strategica sostenuta da milioni di barili di petrolio. Un Venezuela che, oltretutto, non si contiene all’interno delle sue frontiere, ma che promuove regionalismi e pretende di non essere soggiogata dagli Stati Uniti d’America attraverso progetti di unità che, nonostante tutto e le ovvie critiche costruttive che merita, non possono essere inquadrati come destrutturanti dell’imperialismo economico, né tantomeno degli apparati ideologico-culturali imperanti in America Latina. Mi riferisco specialmente all’ALBA ma anche ad alcuni progetti di origine boliviana (PCT) così come le diverse iniziative puntuali che hanno portato alla creazione, ad esempio, della Banca del Sud, il trattato energetico dell’ALBA o la creazione della rete televisiva del sud (TELESUR).
L’ALBA-PCT ha un aspetto importante e di grande valore dato che il commercio e gli investimenti non si collocano come fini a se stanti, bensì come strumenti che consentono lo sviluppo dei popoli che si propongono di conservare le proprie identità culturali. L’opposto rispetto ai principi fondamentali degli accordi multilaterali promossi dagli Stati Uniti d’America.
Il Brasile, in questo panorama, gioca un ruolo fondamentale ma la sua presa di posizione vuole una integrazione sotto la sua egida, infatti dall’UNASUR trapela questo tratto sub-imperialista delle sue politiche nei confronti della regione. Sebbene l’UNASUR sia un passo importante per la riformulazione di alternative comuni, queste devono applicarsi con cautela, riconoscendo che i diversi interessi che ivi si coniugano non necessariamente legittimano, con le azioni dei diversi Stati membri, una agenda genuinamente comune per tutte le parti e che neanche si possa consolidare, nella pratica, l’armonia socio ambientale.
Nonostante tutto, sono stati compiuti passi in avanti nei diversi campi. Nello specifico, costruendo un contrappeso alle altre entità come l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) e che, nei fatti, ha rappresentato gli interessi statunitensi e dei suoi “soci” e non quelli della popolazione regionale nel suo complesso.
Vogliamo parlare ora di due risorse naturali abbondanti in Sudamerica, mi riferisco in particolare all’acqua dolce dell’acquifero Guarani e del petrolio di Tupi. Argentina e Brasile stanno riorganizzando le proprie forze armate nell’eventualità di un conflitto armato per difendere le proprie risorse naturali. Quanto remota potrebbe essere l’eventualità di un conflitto bellico in Sudamerica per controllare queste risorse?
Non lo so. I conflitti armati sono frutto di molteplici fattori che prescindono il discorso sulle risorse naturali. Mi sembra rilevante evidenziare le azioni sub-imperialiste del Brasile in una regione contrassegnata dalle tensioni soprattutto con le nazioni che scommettono sulla continuità dei piani di sviluppo di stampo liberiste (come ad esempio il Messico e la Colombia) e le altre che cercano di costruire processi alternativi, certamente non senza difficoltà e contraddizioni. Oltretutto il Brasile non può non essere considerato dipendente, ad esempio, dalla tecnologia; sebbene significativi progressi siano stati compiuti, continua ad importare una grossa fetta di tecnologia straniera costituita da macchinari, impianti e sistemi necessari a far funzionare le sue industrie.
È la militarizzazione l’unica alternativa possibile per contenere le ambizioni delle potenze straniere che vogliono impossessarsi delle risorse naturali della regione?
Assolutamente no. La via d’uscita auspicabile non passa dalla geopolitizzazione, o più apertamente, dalla militarizzazione dei territori ricchi di risorse che, come si è detto, dipendono dai ruoli strategici che queste rivestono nell’ambiente naturale ma anche dalla concezione di potere di Stato.
Dobbiamo precisare che si tratta di considerazioni che si propongono di mettere la questione ambientale al centro del dibattito sulla sicurezza nazionale e, cioè, come la causa nazionale potrebbe richiedere l’adozione di misure straordinarie benché, allo stato dei fatti, vi siano alternative parallele davanti ad uno simile scenario.
La securitizzazione in quanto concetto che discende dalla geopolitica tradizionale del XX secolo tende ad includere come strade percorribili una serie di variabili di ordine civile, come ad esempio la diplomazia, gli aiuti e la cooperazione internazionale per facilitare l’accesso alle risorse e/o spazi territoriali chiave. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che si è di fronte a dinamiche che coinvolgono molteplici fattori ma soprattutto che si è limitati da circostanze e condizioni socioeconomiche, tecnologiche e politiche in continua evoluzione.
Non si può ovviare che la securitizzazione delle risorse si presenta come una codificazione analitica che vuole appannare il dibattito sulle strutture sociopolitiche e le relazioni di potere esistenti attorno alla degradazione ambientale, l’accesso, gestione e usufrutto disuguale dei territori e delle risorse ivi contenute. In alternativa a quanto sopra, suggerirei di scommettere su una sicurezza ecologica.
Si tratta di un concetto valido in quanto acquisisce una funzione esplicativa importante per la costruzione di alternative allorché lo si intenda come la sicurezza dei popoli e non semplicemente dello Stato. E mentre la sicurezza ambientale “di Stato” tende a prendere misure reattive, mediante l’utilizzo della forza, la sicurezza ecologica allude, normalmente parlando, alla costruzione ed operatività di misure proattive dialogate e consensuali.
La sicurezza ecologica è, dunque, un processo pacifico di riduzione della vulnerabilità dei popoli davanti al degrado e la distruzione ambientale che opera attraverso il riconoscimento delle responsabilità e la risoluzione collettiva delle cause che li hanno provocati, ma anche di quelle associate alla vulnerabilità umana come lo sono, certamente, la povertà e le questioni di genere in tutte le sue sfaccettature e complessità. La sicurezza ecologica demanda, tuttavia, la presenza di nuove e più articolate forme di azione politica e resistenza sociale, così come di un nuovo corollario di alternative concrete.
Come messicani, latinoamericani od altri, dobbiamo capire che la “buena vida” varia da paese a paese e costituisce parte integrante della ricchezza e della diversità socio-culturale, storica e biologica della nazione, certamente centrale nel processo di riformulazione di alternative. Perciò si può affermare che il “bene comune dell’umanità”, come processo e non come obiettivo, è un concetto che si adegua ai contesti biofisici di ogni zona, alle limitazioni naturali della stessa e del pianeta, ed alle nozioni di società desiderabile che i popoli portano con sé.
Siamo di fronte ad una scommessa che domanda non solo una profonda rottura epistemologica delle idee dominanti, bensì un cambio concreto del sistema di produzione e riproduzione dell’umanità che richiede, in primis, la produzione dello spazio territoriale in termini di pratica, risposta, organizzazione e pianificazione dalla base sociale. Questo spingerebbe le proposte che riguardano la vida buenadall’idealismo al realismo.
Il processo di transizione verso uno Stato profondamente compromesso con la costruzione di condizioni per il bene comune dell’umanità suggerisce di considerare il riconoscimento e la genuina operatività dei processi autonomini multiculturali e la riappropriazione dell’identità territoriale dei popoli, così come la rivalutazione della memoria storica socio-ambientale, della proprietà e della gestione collettiva dei beni comuni. Occorre anche la riformulazione di un nuovo carattere istituzionale e giuridico per il bene comune dell’umanità, libero dalla burocrazia, rispettoso delle quote di genuino potere popolare; il tutto in un contesto di vera uguaglianza di genere e rispetto dei diritti umani.
Richiede altresì non solo di una redistribuzione più equa della ricchezza, bensì della ricostituzione della base produttiva, specialmente quella locale e nazionale, dedita alla produzione di valori di uso vitali per il consumo interno e perciò lontana della produzione di valori nocivi e di qualsiasi ragionamento di economie di esportazione, tipicamente estrattive. Si tratta di un disegno che, oltretutto, ponga al centro del dibattito la sovranità energetica e alimentare e la copertura totale dei servizi essenziali, includendo la salute (rinforzando tanto la prevenzione come la degenza), la scienza e la tecnologia; che non contrastino il bene comune dell’umanità ed il diritto all’esistenza delle altre specie; che stabilisca criteri per l’utilizzo razionale delle risorse; che esiga condizioni ambientali ottime e perciò che rispetti scrupolosamente le frontiere ecologiche; che vuole una diminuzione del metabolismo sociale, in particolare, da parte dei paesi ricchi, incominciando a rendere più efficace l’utilizzo dell’energia e dei materiali, aumentando l’utilità dei prodotti ed aumentando il riciclaggio e riutilizzo dei materiali fra le altre misure.
La costruzione del bene comune dell’umanità solo può aspettarsi dai popoli e dall’alleanza fra popoli e dei governi che siano disposti ad accompagnare in maniera genuina questa scommessa per un futuro migliore ma soprattutto pacifico per tutti.
Dobbiamo precisare che si tratta di considerazioni che si propongono di mettere la questione ambientale al centro del dibattito sulla sicurezza nazionale e, cioè, come la causa nazionale potrebbe richiedere l’adozione di misure straordinarie benché, allo stato dei fatti, vi siano alternative parallele davanti ad uno simile scenario.
La securitizzazione in quanto concetto che discende dalla geopolitica tradizionale del XX secolo tende ad includere come strade percorribili una serie di variabili di ordine civile, come ad esempio la diplomazia, gli aiuti e la cooperazione internazionale per facilitare l’accesso alle risorse e/o spazi territoriali chiave. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che si è di fronte a dinamiche che coinvolgono molteplici fattori ma soprattutto che si è limitati da circostanze e condizioni socioeconomiche, tecnologiche e politiche in continua evoluzione.
Non si può ovviare che la securitizzazione delle risorse si presenta come una codificazione analitica che vuole appannare il dibattito sulle strutture sociopolitiche e le relazioni di potere esistenti attorno alla degradazione ambientale, l’accesso, gestione e usufrutto disuguale dei territori e delle risorse ivi contenute. In alternativa a quanto sopra, suggerirei di scommettere su una sicurezza ecologica.
Si tratta di un concetto valido in quanto acquisisce una funzione esplicativa importante per la costruzione di alternative allorché lo si intenda come la sicurezza dei popoli e non semplicemente dello Stato. E mentre la sicurezza ambientale “di Stato” tende a prendere misure reattive, mediante l’utilizzo della forza, la sicurezza ecologica allude, normalmente parlando, alla costruzione ed operatività di misure proattive dialogate e consensuali.
La sicurezza ecologica è, dunque, un processo pacifico di riduzione della vulnerabilità dei popoli davanti al degrado e la distruzione ambientale che opera attraverso il riconoscimento delle responsabilità e la risoluzione collettiva delle cause che li hanno provocati, ma anche di quelle associate alla vulnerabilità umana come lo sono, certamente, la povertà e le questioni di genere in tutte le sue sfaccettature e complessità. La sicurezza ecologica demanda, tuttavia, la presenza di nuove e più articolate forme di azione politica e resistenza sociale, così come di un nuovo corollario di alternative concrete.
Come messicani, latinoamericani od altri, dobbiamo capire che la “buena vida” varia da paese a paese e costituisce parte integrante della ricchezza e della diversità socio-culturale, storica e biologica della nazione, certamente centrale nel processo di riformulazione di alternative. Perciò si può affermare che il “bene comune dell’umanità”, come processo e non come obiettivo, è un concetto che si adegua ai contesti biofisici di ogni zona, alle limitazioni naturali della stessa e del pianeta, ed alle nozioni di società desiderabile che i popoli portano con sé.
Siamo di fronte ad una scommessa che domanda non solo una profonda rottura epistemologica delle idee dominanti, bensì un cambio concreto del sistema di produzione e riproduzione dell’umanità che richiede, in primis, la produzione dello spazio territoriale in termini di pratica, risposta, organizzazione e pianificazione dalla base sociale. Questo spingerebbe le proposte che riguardano la vida buenadall’idealismo al realismo.
Il processo di transizione verso uno Stato profondamente compromesso con la costruzione di condizioni per il bene comune dell’umanità suggerisce di considerare il riconoscimento e la genuina operatività dei processi autonomini multiculturali e la riappropriazione dell’identità territoriale dei popoli, così come la rivalutazione della memoria storica socio-ambientale, della proprietà e della gestione collettiva dei beni comuni. Occorre anche la riformulazione di un nuovo carattere istituzionale e giuridico per il bene comune dell’umanità, libero dalla burocrazia, rispettoso delle quote di genuino potere popolare; il tutto in un contesto di vera uguaglianza di genere e rispetto dei diritti umani.
Richiede altresì non solo di una redistribuzione più equa della ricchezza, bensì della ricostituzione della base produttiva, specialmente quella locale e nazionale, dedita alla produzione di valori di uso vitali per il consumo interno e perciò lontana della produzione di valori nocivi e di qualsiasi ragionamento di economie di esportazione, tipicamente estrattive. Si tratta di un disegno che, oltretutto, ponga al centro del dibattito la sovranità energetica e alimentare e la copertura totale dei servizi essenziali, includendo la salute (rinforzando tanto la prevenzione come la degenza), la scienza e la tecnologia; che non contrastino il bene comune dell’umanità ed il diritto all’esistenza delle altre specie; che stabilisca criteri per l’utilizzo razionale delle risorse; che esiga condizioni ambientali ottime e perciò che rispetti scrupolosamente le frontiere ecologiche; che vuole una diminuzione del metabolismo sociale, in particolare, da parte dei paesi ricchi, incominciando a rendere più efficace l’utilizzo dell’energia e dei materiali, aumentando l’utilità dei prodotti ed aumentando il riciclaggio e riutilizzo dei materiali fra le altre misure.
La costruzione del bene comune dell’umanità solo può aspettarsi dai popoli e dall’alleanza fra popoli e dei governi che siano disposti ad accompagnare in maniera genuina questa scommessa per un futuro migliore ma soprattutto pacifico per tutti.
Note:
1 - Ad esempio, fra i maggiori importatori di petrolio, secondo i dati del 2008, vi sono Stati Uniti d’America, Giappone, Cina, India, Corea, Germania, Italia, Francia, Spagna e Paesi Bassi. Mentre che i maggiori esportatori di quell’anno sono Arabia Saudita, Russia, Iran, Emirati Arabi Uniti, Nigeria, Angola, Norvegia, Kuwait, Iraq e Venezuela (Agenzia Internazionale dell’Energia, 2010). De notare i paesi dell’OSCE concentrano il 53.2% della capacità di raffinazione del petrolio.
2 - I dati non lasciano dubbi a riguardo. Marini (1973: 30) ci fornisce quelli raccolti da Paolo Santi che si basavano sulle statistiche del Dipartimento Economico delle Nazioni Unite stabilendo una correlazione fra i prezzi dei prodotti primari e quelli manifatturati: “…Considerando il quinquenio 1876-80 = 100, l’indice decresce a 96.3 nel periodo 1886-90, a 87.1 negli anni 1896-1900 e si stabilizza nel periodo che va dal 1906 al 1913 in 85.8 cominciando a decrescere con maggiore rapidità a seguito della finalizzazione della guerra” (Santi, 1969: 49).
2 - I dati non lasciano dubbi a riguardo. Marini (1973: 30) ci fornisce quelli raccolti da Paolo Santi che si basavano sulle statistiche del Dipartimento Economico delle Nazioni Unite stabilendo una correlazione fra i prezzi dei prodotti primari e quelli manifatturati: “…Considerando il quinquenio 1876-80 = 100, l’indice decresce a 96.3 nel periodo 1886-90, a 87.1 negli anni 1896-1900 e si stabilizza nel periodo che va dal 1906 al 1913 in 85.8 cominciando a decrescere con maggiore rapidità a seguito della finalizzazione della guerra” (Santi, 1969: 49).